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Intervista a Rocco Marchi e Silvia Cesari | Re:cover
Rocco Marchi e Silvia Cesari
Rocco Marchi – Menu
Rocco Marchi – Immagine 2
Parliamo di DIE. Silvia cominciamo con te?
Va bene.
Come hai conosciuto Jacopo e a che punto sei stata inclusa nel progetto di DIE? Come ti sei rapportata a lui e agli altri che hanno collaborato? Che scambio c’è stato?
Ci siamo conosciuti diversi anni fa, poco prima che Jacopo iniziasse a lavorare a DIE. Ho quindi assistito al lavoro di Jacopo sul disco fin dal principio, ma solo col tempo e la convivenza i nostri reciproci lavori si sono naturalmente compenetrati fino a creare un punto di vista e un lessico condivisi. Jacopo ha lavorato principalmente da solo, fino al momento in cui è entrato in studio a Bologna per ultimare il disco con Bruno Germano. Il lavoro sulla copertina è stato affrontato solo a disco ultimato, a partire dalle mie fotografie e da alcune idee grafiche di Jacopo (principalmente la predominanza del titolo e il colore rosso). Negli incontri con Rocco Marchi e Francesca Baccolini di Obst und Gemüse (che si sono occupati della grafica) e con Gianluca Giusti di Trovarobato ci siamo confrontati sulle idee, sul lessico, sugli elementi del disco che immagini e grafica dovevano sottolineare. È stato tutto molto immediato.
Silvia Cesari – Immagine 2
Silvia Cesari – Immagine 3
Silvia Cesari – Immagine 4
Con quale macchina hai scattato le fotografie? Perché?
Ho utilizzato una Nikon F del ’73: nonostante abbia nel tempo collezionato tantissimi apparecchi, è la prima macchina che ho usato, la stessa di mio padre, quella con cui ho imparato a fare foto e che porto sempre con me, insieme a un iPhone.
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Silvia Cesari – Immagine 10
Non sono solo filtri applicati alle immagini quelli che rendono i colori dei tuoi scatti, ma le pellicole sono state modificate o usate in modo improprio per arrivare a quel risultato, o sbaglio?
Sì, è così. Non uso solo filtri, ma pellicole virate, rullini scaduti oppure pellicole “trattate” in immersioni con diverse sostanze chimiche, biologiche o alimentari.
Si può dire che l’evoluzione del disco e delle tue fotografie sia andata di pari passo? È venuta prima la musica? Quali soggetti e composizioni privilegiavi di volta in volta?
Silvia Cesari – Immagine 11
Abbiamo lavorato di pari passo, indipendentemente l’uno dall’altro, ma scambiandoci quotidianamente idee e riflessioni. Solo a lavoro terminato abbiamo preso piena coscienza della simbiosi che nel tempo si era creata, fra suono e grana.
Silvia Cesari – Immagine 12
Ho fotografato quel che vedevo e intorno avevo principalmente una natura dura e incombente.
Il disco è molto coerente per quanto intricato, musicalmente parlando, ma i testi suggestionano con semplici dicotomie. È come se in questi paesaggi gli elementi ritornassero, a volte uguali, a volte con una grana diversa, a volte contrapponendosi tra loro, e nelle fotografie dal punto di vista compositivo c’è sempre una chiarezza che si appoggia anche sulla quantità ridotta di elementi ritratti, che quindi esalta il loro potere. Un po’ come le parole dei testi. Cosa c’è di questo nel tuo lavoro?
Silvia Cesari – Immagine 1
Probabilmente la serialità degli scatti e l’astrazione delle forme.
E riguardo alla scelta dei soggetti in relazione alla pellicola, alla grana, all’ora del giorno, alla musica? È cambiato qualcosa scatto dopo scatto, qualcosa si è affinato?
Silvia Cesari – Immagine 14
Nella scelta dei soggetti non c’è stato nulla di predeterminato: li incontravo spostandomi e osservando quel paesaggio. La natura di un’opera si rivela nel tempo, mutando continuamente. In questo percorso la musica era sempre presente poiché Jacopo ha condiviso con me ogni mutamento apportato su brani, testi e arrangiamenti.
Hai qualcosa da dire riguardo a come percepisci le tue fotografie dopo il lavoro di Rocco Marchi, il modo in cui sono state legate alle pubblicazioni? Quanto è cambiato rispetto agli originali? Hai seguito anche l’editing finale?
Nell’utilizzare le fotografie per la grafica del vinile e del CD, Rocco non ne ha snaturato in alcuna misura né il senso né la struttura (la grana in primis). Eventuali modifiche sul colore sono state concordate insieme ai fini del lavoro grafico. Come già detto, abbiamo lavorato in piena armonia e con un’idea condivisa molto chiara.
Il progetto è durato molto tempo. Quanto ne hai passato in Sardegna, come ti sentivi?
Silvia Cesari – Immagine 13
Ho passato molto tempo in Sardegna negli ultimi anni, ogni volta che mi è stato possibile. Sono abituata a viaggiare fin dall’infanzia, spostarmi è per me una dimensione naturale. Raramente provo quindi nostalgie di questo tipo, ma ho sentito la Sardegna fin da subito come una casa.
Cosa preferisci della Sardegna, e cosa della Sardegna c’è nelle tue fotografie?
Silvia Cesari – Immagine 16
Forse l’aspetto più esclusivo e profondo di quella terra e di quella cultura: l’atavismo.
Silvia Cesari – Immagine 15
Ho fotografato gli elementi del paesaggio messi a nudo nella loro primordialità, fino a raggiungere forme quasi astratte.
Silvia Cesari – Immagine 21
Come è stato fotografare lui per relazionarlo al disco?
Jacopo detesta farsi fotografare, ma nel tempo si è dovuto arrendere. Detto ciò, è stato naturale ritrarlo nei luoghi che più gli appartengono e nei quali è cresciuto, gli stessi in cui il disco è nato.
Silvia Cesari – Immagine 17
Silvia Cesari – Immagine 18
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Silvia Cesari – Immagine 19
Chi è la figura che si vede nella copertina del disco? Perché è stata scelta proprio quella fotografia?
Silvia Cesari – Immagine 20
Sono io. La fotografia è un autoritratto realizzato nell’agosto 2014 sulle dune di sabbia di San Nicolò, a Buggerru. Il cavo di scatto remoto era troppo corto per coprire la distanza fra me e la macchina, per cui dopo aver impostato i parametri di settaggio ho lasciato a Jacopo il compito di premere il rilascio dell’otturatore. Nel gesto si potrebbe quindi dire che si tratta di un suo scatto.
È una fotografia nata indipendentemente dal disco, ma che in seguito al completamento dei testi e alla scelta del titolo, ci è apparsa immediatamente perfetta per la capacità di contenere in un’immagine ridotta al minimo gli elementi rappresentati (la donna, la terra, il cielo) o evocati (il sole, il mare, il sale, l’assenza, la morte) dai testi. La fotografia, quindi, segue lo stesso processo di produzione di senso compiuto dai testi.
Non capita spesso di poter lavorare in questo modo e con questa qualità di immersione quotidiana: cosa ti è rimasto, cosa è stato più importante?
Come detto, si è trattato di un processo naturale che continua tuttora. Non posso quindi fare ancora un bilancio di questo tipo. Sicuramente non capita spesso di lavorare con questa continuità e simbiosi e ciò ha indubbiamente determinato il legame profondo fra la musica di DIE e le immagini che la rappresentano.
Cosa puoi dirci delle fotografie scattate durante i live?
Silvia Cesari – Immagine 22
Seguire il tour ha fatto parte del processo di documentazione del disco, così come lo è stato precedentemente immortalare la fase di scrittura in Sardegna o la registrazione delle voci e il mixaggio al Vacuum Studio di Bologna.
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Silvia Cesari – Immagine 24
Quali copertine/dischi citeresti come tuoi preferiti?
Atom Heart Mother (1970) dei Pink Floyd.
E tra i fotografi, quali? Hai dei riferimenti?
Se riferimento dev’esserci, Michelangelo Antonioni.
Silvia Cesari – Immagine 28
Passando a te, Rocco, si può dire che tu sia la Trovarobato rispetto al disco?
Effettivamente io non sono più la Trovarobato. La Trovarobato è l’etichetta dei Mariposa che ho fondato, che abbiamo fondato per produrre i dischi. Poi alcuni hanno deciso di portare avanti l’etichetta in una direzione più professionale, mentre altri hanno preferito dedicarsi a tempo pieno alla musica. Comunque c’è un pezzo di cuore lì dentro, c’è un’affinità elettiva molto forte, ecco.
Conoscevi già Jacopo?
Jacopo lo conosco da una vita e nell’ultimo anno prima della collaborazione per DIE ci siamo visti spesso anche perché stavamo lavorando insieme per un disco di Dino Fumaretto. Io lo stavo mixando, Jacopo aveva in qualche maniera prodotto il disco. Comunque spesso ci siamo visti e abbiamo parlato del disco. Ad un certo punto ho sentito le basi, senza i testi, anche lì era ancora un momento in cui non ci credeva più nessuno che lo finisse.
È stato un periodo molto interessante e stimolante, abbiamo parlato moltissimo di musica. In verità non capita così spesso, tra musicisti, di parlare di musica.


Ti è stato chiesto subito di occuparti della grafica o sei stato prima coinvolto per altri motivi?
In realtà il disco l’ho sentito molto prima che mi fosse chiesto di fare la grafica. La grafica ti viene sempre chiesta più o meno con una deadline di sei giorni, è sempre così che va a finire, in ogni caso, grande o piccolo che sia. Ed è normalissimo nelle piccole etichette. Per la mia esperienza è sempre una cosa dell’ultimo minuto. Non starei più facendo il grafico comunque, in teoria. Ma mi ha fatto piacere che mi sia stato chiesto.
Qual è stata la prima cosa che hai pensato vedendo le foto e ascoltando il disco?


Hai scelto tu la foto della copertina?
L’abbiamo scelta insieme. Devo dire che è stato un processo che è stato portato avanti insieme con Jacopo e Silvia e con Francesca Baccolini, la mia compagna, con cui mandiamo avanti le attività di Obst und Gemüse.
È stato facile sceglierla?
È stato uno dei progetti più facili che mi siano mai capitati. Il disco aveva un immaginario molto netto, secondo me, e le foto avevano un immaginario netto che ci si attanagliava bene. Era tutto possibilmente coerente.


Quindi non è stato difficile creare l’immaginario visivo?
L’immaginario visivo bene o male c’era già diciamo. A parte che Silvia è la compagna di Jacopo, per cui come dire condivideranno tante cose. Però il linguaggio di Silvia non è solo quello che troviamo su DIE.
Erano molte le foto tra cui scegliere?
C’era una grande quantità di materiale, parte del quale è stato ripreso all’interno del cd, le foto degli scogli per dire. Era bello includere la parte maggiore possibile del lavoro di Silvia. L’insieme delle fotografie è un corpus coerente, ma con un immaginario comunque ampio. Non è soltanto “fa un caldo boia”, non so come dire.
Nella copertina c’è certamente altro, si intravede la narrazione forse.
Rocco Marchi – Immagine 3
La foto della copertina è diversa, si scosta dal resto.
Rocco Marchi – Immagine 4
Dietro non c’è una foto.
Rocco Marchi – Immagine 5
E all’interno del CD ci sono tutte foto di scogli, rocce.
Rocco Marchi – Immagine 6
E i testi.
E il vinile?
Il vinile si discosta da questo.
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Nel vinile c’è la tanca.
Rocco Marchi – Immagine 8
C’è l’albero.
Rocco Marchi – Immagine 9
Come definiresti le foto di Silvia?
C’è sempre un senso di istantanea nelle foto di Silvia, anche se sono spesso, come dire, elaborate. Non c’entra niente con Cartier Bresson, però ha sempre secondo me quel forte senso, quello sì cartierbressoniano, dell’istante esatto. Spesso i soggetti sono statici, ma c’è sempre quel senso lì.
La maggior parte delle foto del disco sono davvero semplici: le foto degli scogli, le foto dello skyline. E sono estremamente evocative proprio per questo. C’è una specie di talento “pop”, non so come dire, molto forte in questo. “Pop” nel senso che con un brutto scatto sarebbe una banalità. Sono immagini molto forti pur muovendosi apparentemente in un genere che è pericolosamente frequentato dai fotoamatori. C’è una qualità straordinaria giocando intorno ad alcuni stilemi da manuale degli anni settanta tipo “prendi l’ombra, fai una geometria netta” ecc…
I colori sono quelli delle foto originali?
C’è un lavoro sui colori che in parte abbiamo tenuto in parte alterato. Silvia lavora spesso con pellicole scadute, con notturne di giorno, sviluppi C-41. Poi le abbiamo trattate anche perché c’erano scansioni differenti, alcune in bassa qualità. Le grane erano molto diverse. Alla fine ho preso la grana della foto in copertina e l’ho appiccicata su altre immagini.
Ovvero?
Molte altre foto non avevano quella grana lì però ormai quella era diventata la grana del disco. Ci sono un po’ di sovrapposizioni di livelli, ecco. Anche se lo scatto è molto simile. Però avevano una dominante leggermente diversa, era un po’ scentrata, un po’ storta, ho fatto del classico editing. Ed è stata fatta un po’ di post produzione per ottenere quella grana lì, che aveva già un po’ lei nella foto. Quindi era una grana fotografica restituita tipograficamente. Il retro di copertina ha la stessa grana ma non la foto.
Rocco Marchi – Immagine 10
Rocco Marchi – Immagine 11
Rocco Marchi – Immagine 12
Perché proprio quella grana?
Perché dà un forte senso materico che le foto cercavano, ma che non c’era necessariamente in ogni scatto. Ecco, matericità è un’altra parola chiave.
Sei uno da grafiche materiche?
Io non sono assolutamente uno da grafiche materiche. Io farei Albe Steiner di solito. C’è il ciano, c’è il bianco, il magenta, il giallo, due cose una sopra l’altra: fine. Così si fa la grafica. La grande scuola degli anni ‘50 è quella che ha segnato. Se devo fare qualcosa parto da lì. È ovvio che non è l’unico linguaggio possibile. Però io volevo essere Bob Noorda insomma.
Come mai il titolo è così sovradimensionato rispetto al nome dell’autore?
L’artista e chi deve fare la promozione in questi casi bisticciano perché spesso succede che uno vuole vendere quella cosa, quindi il nome deve essere più grande possibile, perché il nome dell’artista è conosciuto, il nome dell’opera no. Alla fine comunque ha scelto Jacopo.
Si può dire che sia un disco che sopravvive senza il suo autore? Si discosta anche molto dal primo. Lo chiedo in relazione al nome dell’autore che in copertina quasi non si nota rispetto al titolo dell’album.
Sì, si discosta molto dal primo. In generale la questione del vendere, e in particolare per i cantautori, la questione del comunicare, del marketing, è davvero fatta spesso di codici, piccole idiosincrasie stupide. Molta canzone d’autore è compatta intorno a come un autore canta, le parole che usa ecc.: balzano all’occhio subito le idiosincrasie. In questo disco di certo le prime cose che saltano agli occhi non sono le idiosincrasie.


Il titolo è stato sempre così grande?
Il titolo è grande ed è diventato sempre più grande, perché abbiamo prima scelto quella foto tra le tante, quella era chiaramente la foto della copertina anche se non descrive esattamente la scena, ma c’è comunque quella donna, c’è un caldo boia. Non c’è nessuno che sta affogando in mare, però c’entra.
Perché questa imponenza?
Rocco Marchi – Immagine 13
A scrivere in piccolo diventa una locandina cinematografica, se fai una roba leggera lì: subito cinema. E non è detto che sembri Antonioni, anche se quella foto è un po’ Antonioni.


Al di là di scriverla grande e pesante ‘sta scritta, è andato via molto più tempo a metterla un po’ più in alto, un po’ più in basso, per capire dove pesasse di più, cioè dove incombesse. Il tentativo non era quello di trovare un bilanciamento, tra l’altro ora è anche leggermente sbilanciata, è un po’ spostata a sinistra, come dire non è per niente da manuale la posizione della scritta. Tutto il tentativo è stato di cercare il punto che esprimesse più gravità. E la stessa cosa è stata portata dietro dove le scritte sono ancora più grandi. Forse è un po’anni ’90, non so. Si potrebbe dire massimalista.
È anche massimalista da un punto di vista prettamente musicale.
Diciamo che non ha paura di includere tanta roba.
Il retro è venuto come conseguenza della copertina? Anche qui si vede l’incombenza rispetto alla dimensione in cui le scritte sono costrette.
Sì come naturale conseguenza. Senza neppure un grande processo di elaborazione. Non volevo mettere un’altra foto a rovinare tutto. Mi sembrava ci fosse un buon equilibrio tra quella roba lì fuori, e quello che c’era dentro. E un altro scatto coerente con la copertina non l’avevamo: avrebbe voluto dire mettere un altro elemento, forse di troppo. Abbiamo restituito tutto il rosso che davanti non c’è. Sì c’è la scritta, e non è poco, ma “forse ci voleva più rosso” e così abbiamo fatto il retro.
La tipografia come è venuta? Hai qualche riferimento?
È evidente, anche per come è fatto Jacopo, per come è il disco: ispirarsi a un periodo di utopia, e di utopia marxista, mi sembrava particolarmente adatto. Io sono anarchico, non sono marxista. Mi sembrava che proprio sarebbe andato bene a Jacopo.
Rocco Marchi – Immagine 14
In una copertina avevo scritto COOP, per tornare ad Albe Steiner e Bob Noorda.
Rocco Marchi – Immagine 15
O una in cui ho scritto al posto di DIE, CGIL.
Sempre enormi e rosse. Forse è una cosa bella da raccontare, forse fa ridere.
Quale font hai scelto?
Alla fine non c’è l’Helvetica, c’è un Futura che non è esattamente quello che avrebbe usato uno Steiner, non so se abbia mai fatto qualcosa col Futura. Non è Steineriana, non è una citazione, potrebbe essere forse più Noorda, ma neanche. In realtà poi il logo della CGIL è degli anni ‘80, quello che conosciamo scritto in Futura. Però in qualche maniera tutto questo secondo me funzionava.
Sei mai stato nei luoghi in cui Silvia ha scattato le foto?
Incidentalmente, ma questo è stato molto utile, non l’estate scorsa, ma l’estate precedente, io e Francesca, la mia compagna, siamo andati in vacanza a Buggerru. Ci siamo poi visti con Jacopo. Abbiamo passato un po’ di tempo assieme e abbiamo fatto poi anche un sacco di gite per i fatti nostri. Tra l’altro fa ridere pensare “vado al mare in Sardegna” e invece poi trovarsi davvero in un viaggio. Quella cosa lì era molto viva.
Quindi hai visto anche la spiaggia, la tanca, l’albero.
L’albero a me piaceva un casino. Sono dei posti incredibili dove uno può mettere a dura prova il suo razionalismo materialista.


Ho avuto delle impressioni molto forti e questo mi ha aiutato moltissimo, non sono sicuro che avrei avuto il coraggio di mettere una foto di un albero o di uno skyline così, anche se le immagini sono molto forti.
Grazie Silvia, grazie Rocco. E la versione dei fatti di Jacopo Incani, in arte IOSONOUNCANE?


  • ROCCO MARCHI
    SILVIA CESARI
    Iosonouncane / DIE

    a cura di Matteo Crespi e Alessandra De Isabella – 27/06/2016
    La fotografa

    Silvia Cesari è nata a Bologna nel 1983 e si è specializzata in Lingua e Letteratura Francese presso l’Università di Bologna e l’Université Paris-Sorbonne.
    Attualmente vive e lavora a Bologna.
    Fotografa, ha seguito quotidianamente la lavorazione di DIE, dalla scrittura dei brani in Sardegna alle fasi di finalizzazione del lavoro.
    Il risultato sono tre anni di materiale fotografico, che va dalla documentazione delle fasi creative del musicista alla traduzione visiva del paesaggio sonoro e lessicale del disco.

    Il grafico

    Rocco Marchi, chitarrista dei Mariposa, ha fondato nel 2002 la Trovarobato, etichetta indipendente italiana.
    Inizialmente nata per controllare meglio la gestione delle attività del proprio gruppo musicale, è diventata poi riferimento per numerosi artisti, tra cui Iosonouncane.
    In particolare Rocco, all’interno dell’etichetta, si è spesso occupato, in misura sempre minore, dell’aspetto grafico degli album, tra cui DIE.

    L’artista e l’album

    Jacopo Incani è sardo, di Buggerru, è nato nel 1983 ed è residente a Bologna dal 2008.
    Ha fatto parte degli Adharma dal 2000 al 2008, pubblicando nel 2005, per Jestrai, l’EP Risvegli.
    A gennaio 2008 compra un campionatore e una loop machine e lancia il progetto solista Iosonouncane, il cui esordio sarà La macarena su Roma, pubblicato il 10 ottobre 2010 dall’etichetta discografica Trovarobato.
    Dopo il tour si dedica all’album successivo, DIE, annunciato dopo un lungo periodo di silenzio e uscito il 30 marzo 2015.
    Il disco tratta di vita e di morte, dell’uomo e della natura.